Ero un bambino Le Falìe con gli ex-bambini soldato della RDC

Nel 2012 Le Falìe hanno intrapreso un ambizioso progetto di teatro-terapia con i bambini soldato della Repubblica Democratica dl Congo. Un laboratorio teatrale e un video documentario da realizzarsi nei centri di accoglienza gestiti da ACS Italia insieme con la Caritas Italiana e dalla Caritas Goma nella regione del Nord Kivu. Erano questi i principali obiettivi del progetto. La guerra che devasta da decenni, causa del meschino arruolamento dei bambini e delle bambine soldate, si è intensificata a partire dalla primavera del 2012, rendendo impossibile la continuazione del progetto.
Questo è il racconto del viaggio compiuto da Alessandro Anderlonoi nel 2012.
Il vulcano sopra il lago
Goma, 7 aprile 2012. Attraversiamo nella le montagne tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo. A pochi chilometri c'è il Parco di Virunga, dove turisti da ogni parte del mondo vengono a vedere i gorilla. Ma non è questo il motivo del nostro viaggio. Più alto delle altre, svetta il vulcano di Niragongo. Una nuvola rossa lo sovrasta, illuminata dalla lava che arriva fino in città. a Goma, sul lago Kivu. Siamo sul confine tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo. A Kigali, dove siamo arrivati, capitale del "povero" Ruanda, si respirava un'atmosfera di città europea, ma appena passato il confine, dopo l'attento e meticoloso controllo di visti e passaporti, la situazione è cambiata. La ricchissima RDC (oro, diamanti, minerali, acqua, terra fertile...) è il secondo paese più povero del mondo. E le strade dissestate di Goma ci accolgono in un'allegra confusione di gente a piedi e di motociclette sulle buche e nelle pozzanghere di una stagione molto piovosa. Padre Osvald, direttore della Caritas Goma, racconta e ascolta cosa facciamo qui. Teatro con i bambini soldato... chissà come riusciremo a capirci, in lingua swahili. Abbiamo poco tempo, partiamo per Rutchuru dove saremo accolti dalla parrocchia che gestisce il centro di trattamento dei traumi di guerra dei bambini soldato. Sono con Francesco Meneghetti, di ACS Italia e Caritas Italiana, e con Magda Emmanuele, in servizio civile per un anno a Kindu. Se ci sarà una connessione internet torneremo a raccontare.
Sguardi
Da Goma a Rutshuru, 7 aprile 2012. Lasciata Goma l’orizzonte è tagliato dal verde vivido della foresta e dal grigio-cobalto di un cielo plumbeo che promette pioggia. La strada è un susseguirsi di buche e crateri. Altri crateri fumano alle pendici del Niragongo: lava incandescente che sgorga incessante e silenziosa. Capiamo che il grande vulcano è qualcosa di più di una montagna, una presenza costante, animata e viva, a vegliare sul nostro viaggio. Lungo la strada per Rutshuru, meta del nostro viaggio, lunghe file di donne dai vestiti coloratissimi e di bambini e bambine dallo sguardo adulto portano sulla testa lunghe canne da bambù. Chiediamo a Eugenie, che ci accompagna, perché sono solo le donne e i bambini a portare pesi in testa. Ride, ci guarda e dice: «Se lo facesse un uomo sarebbe ridicolo». Anche le piantagioni di questa terra fertile sono coltivate dalle donne: bananeti, piante di caffè, palmeti. Anche le capre e le vacche le allevano le donne. «Gli uomini costruiscono le case», ci dice Eugenie. E chiacchierano fuori delle case, aggiungiamo noi guardandoli mentre attraversiamo i villaggi. Bambini spuntano da ogni dove, tra le capanne di terra e paglia, lungo i sentieri fangosi, tra i cespugli. «Musungu», gridano indicandoci con il dito. Significa: bianco. Uno di loro allunga la mano a chiederci qualcosa, rinchiusi dentro l’auto che corre. Incontriamo una carovana di automezzi dei Medici senza Frontiere. Scappano? In questa regione la scorsa settimana, una banda di militari fuorilegge ha rapito due di loro, disseminando il panico tra la gente, memore delle antiche scorribande e violenze e timorosa che torni la guerra. «Ora è sicuro», ci aveva rassicurato l’abbai Osvald prima di partire per Goma, sulla terrazza della Guest House che guarda il lago di Kivu. Siamo partiti soltanto perché lui ci ha rassicurato. Gli altri ospiti stranieri sono stati confinati negli alloggi, per ordine delle Nazioni Unite i cui automezzi bianchi, con l’inconfondibile scritta UN, ci vengono incontro. Ci chiediamo fin da ieri cosa davvero facciano qui i caschi blu. Una scimmia zoppa ci viene incontro sulla strada. Pensiamo che anche gli animali possono subire mutilazioni. E siamo a Rutshuru, subito nel Centro di Trattamento del Traumna di Guerra. Da lontano i bambini ci vedono, corrono verso il cancello del Centro. Smontiamo dalla jeep e intonano un canto di benvenuto, battendo le mani. Uno di loro, quando ci aveva visto, era scappato, ma guardandoci ora battere le mani con i suoi compagni torna e ci osserva stupito. Occhi grandi, spalancati, profondi come l’abisso che hanno visssuto. Non c’è tempo di guardare altrove, capiamo che dentro ognuno di questi bambini (li chiamano così ma hanno anche 19 anni) ci sono storie che il solo pensiero di sfiorare ci mette timore. Qualcuno ci dà la mano, altri sorridono delle nostre stentate parole in swahili. Ci guardano per tutto il tempo, da sotto la tettoia dove si riparano dalla pioggia, Gli educatori, lo psicologo, i guardiani, le mamme ci fanno visitare il centro. I dormitori, con i letti con la zanzariera, le sale del gioco, la cucina all’aperto, con un fuoco acceso tra i sassi sotto un nylon. Poi ci sediamo in una stanza a parlare del progetto di teatro, ma le nostre parole sono niente rispetto agli occhi che fanno capolino dalle finestre. Riusciremo a condividere quegli sguardi?
Rientrate
Da Rutshuru a Goma, 8 aprile 2012. Nella chiesa di Rutshuru, un hangar per un aeroporto che non è mai stato costruito, sta per finire la terza messa di Pasqua, quella dei matrimoni, quando da Goma arriva l’ordine di rientrare immediatamente. Un gruppo di militari ribelli ha incendiato tre depositi d’armi ed è stato coinvolto in una sparatoria a 17 chilometri da qui. Il Nord Kivu torna a essere zona di rischio, dopo tre anni di pace in una terra dove si combatte una guerra che sembra non finire mai. È il terzo conflitto d’armi in una settimana. Troppo rischioso restare nel villaggio che potrebbe essere tagliato fuori. La prospettiva peggiore è restare bloccati qui per giorni. Stavamo prendendo confidenza con questo mondo di capanne, di baracche e di case di mattoni, immerso nel verde di una terra in cui tutto può crescere ed essere coltivato. Il sabato, la Veglia di Pasqua, la messa era iniziata alle 18.30 ed eravamo rimasti in chiesa fino alle 22.30. Il parroco polacco, poche parole e sguardo di chi sa cosa vuol dire guerra (è stato ferito a tre centimetri dal cuore) aveva battezzato 170 persone. «L’anno scorso erano 230» ci racconta mentre ceniamo, a base di piatti polacchi nel cuore dell’Est congolese. L’Africa canta. Anche se le percussioni sono state sostituite dalla tastiera elettronica, 2000 persone cantano. Sono tutte canzoni in tonalità maggiore e con ritmi binari, battendo le mani sul primo e sul secondo tempo. L’Alleluia è un canone che ci entra subito in testa e che non ci abbandonerà più per tutto il giorno successivo. Fino alle 5.00 di mattina andranno avanti a cantare i neocatecumenali (ma come, anche qui? Ma perché la Chiesa non riesce a essere semplicemente comunità, senza dividersi in correnti, come i partiti?). Al mattino ci raggiungono gli ex bambini soldato, ospiti del Centro della Caritas Goma, per partecipare con noi a messa seconda. Nella spianata di terra rossa di fronte all’hangar-chiesa ci salutiamo. Ci vengono intorno decine di altri bambini. Sarebbe un attimo mettersi a fare tutti insieme un girotondo, sfatando il terrore e i pregiudizi che la gente ha verso questi bambini dall’infanzia negata, soldati controvoglia di una guerra che il popolo non ha mai deciso. Impariamo il linguaggio dei gesti: i bambini ci insegnano i loro saluti. Ridono, al guardare noi uasungu stentare di fronte a un mondo che si esprime a gestualità. Ci diamo appuntamento al pomeriggio, ma l’ordine di rientrare ci farà stare con loro soltanto una decina di minuti. Arriviamo al Centro e ci accolgono danzando. Fotografie, video... cerchiamo di portare con noi tutto quello che si può, non potendo iniziare con loro il laboratorio di teatro che avevamo previsto. Chissà se riusciremo mai a tornare qui. A vederli danzare così non si penserebbe certo che fino a cinque mesi fa erano soldati, costretti ad ammazzare, a stuprare, a ingoiare i cuori delle vittime per ordine dei loro aguzzini, spesso ex bambini soldato anche loro. Ci hanno scritto una lettera per ringraziarci. Ma cosa abbiamo fatto? Siamo venuti fin qui, abbiamo detto che avremmo giocato con loro, siamo tornati a salutarli seppure l’ordine fosse quello di andarsene prima possibile. A noi sembra poco, per loro è un gesto da salutare con un entusiasmo che ci lascia attoniti. Ci seguono fino alle jeep, allungano la mano a darci l’ultimo saluto. Partiamo con un’amarezza tremenda e per metà del viaggio nessuno dice una parola. Stiamo rientrando a Goma, la città del vulcano fumante sopra il lago.
Boy Scout
Goma, 9 aprile 2012. Siamo bloccati a Goma, in attesa di notizie sui disordini di questi giorni che ci hanno fatto rientrare da Rutshuru. Riusciremo a tornarci? E la seconda parte del nostro viaggio, sui pascoli del Masisi, per visitare i Centri di Transito e di Orientamento dove vengono accolti i bambini soldato, sarà possibile? I responsabili della Caritas Goma, sono prudenti. Questa attesa forzata ci dà la possibilità di chiacchierare a lungo con i sacerdoti e gli operatori congolesi. Chiediamo cosa pensano della guerra che si è combattuta nella RDC: «Tutte le guerre e le ribellioni che sono accadute qui sono state sostenute dai governi francesi e statunitensi». Più chiaro di così. Qui non risparmiano nulla neanche alle gerarchie ecclesiastiche: «La politica francese e statunitense in Africa è negativa, ma non abbiamo mai sentito la Conferenza Episcopale Francese dire qualcosa contro questa politica. Se non dicono niente, significa che sono complici». Nemmeno la Caritas è fuori da questa logica: «Le Caritas è troppo obbediente alle Conferenze Episcopali. I responsabili della Caritas sono chou chou del Vaticano». Il responsabile della Caritas Goma, padre Osvald viene di tanto in tanto a “passeggiare” in Europa, ma non si sognerebbe mai di venire ad abitarci. «In Europa la Chiesa è pressoché morta» ci dice, con la pacatezza e la consapevolezza che ci stanno insegnando gli africani. Gli chiediamo se l’Africa ha fede. «Gli africani hanno la fede ma non hanno la maturità politica. Però hanno la solidarietà. Nei villaggi le persone anziane, che non hanno nessuno, vengono aiutate, viene dato loro da mangiare, vengono accompagnate. Tutto il villaggio un giorno si occupa di una persona, il giorno dopo di un’altra. Alla sera si trovano tutti insieme, bevono la birra, per condividere la gioia di aver aiutato. Oggi lui, domani potrai essere tu». Ma nelle città è diverso. Le città, come Goma, sembrano imitare le città occidentali. La vita comunitaria e solidale l’avevamo toccata con mano a Rutshuru dove, nei momenti concitati prima della nostra partenza, padre George ci aveva illuminato in pochi istanti sul ruolo della così detta comunità internazionale nella RDC. Gli avevamo chiesto se i Caschi Blu, che incontriamo in continuazione, contribuiscono alla sicurezza della popolazione. «La nostra sicurezza è nel Signore», ci aveva risposto ridendo. E allora cosa ci stanno a fare qui i soldati delle Nazioni Unite? Soprattutto indiani, con i turbanti azzurri? «I Caschi Blu? Sono degli osservatori. Dei boy scout.» Gli elicotteri bianchi con la scritta UN rombano sopra il cielo del Nord Kivu, lungo la strada sono stati posizionati i carri armati, camion di carburante e camionette con soldati armati corrono sulle strade sterrate. Ma quando costa, e chi la paga, questa messa in scena?
Si riparte
Goma, 10 aprile 2012. Le notizie dicono che i militari ribelli si sono ritirati nella foresta. Molti di loro sono rientrati nell’esercito. La situazione sembra tornare sotto controllo. Ma c’è un’altra notizia: il presidente Kabila ieri sera è arrivato a Goma. Non si vedeva qui dai tempi della campagna elettorale. È venuto per tranquillizzare la popolazione? Per dare una prova di forza dello Stato? E che effetti avrà la sua presenza nel Nord Kivu, regione che gli è elettoralmente ostile? Con questi interrogativi ripartiamo per Rutshuru, dove i bambini del Centro sono stati avvisati del nostro ritorno. Loro dei militari e dei politicanti, come li chiamano qui, sono stati le vittime. Torneremo a raccontare cosa faremo con loro domani sera.
Giochi
Rutshuru, 10 aprile 2012. Abbiamo imparato il canto Karibu: benvenuti. I bambini del Centro di Rutshuru ce lo cantano di nuovo, salutando il nostro ritorno. Hanno preparato una scenetta che racconta la loro storia. Il palcoscenico è il prato del Centro. Li vediamo entrare con finti fucili costruiti con canne di bambù. Le pallottole sono foglie intrecciate, le bombe a mano avocado tagliuzzati. Hanno costruito i cappelli con foglie di banana legate tra loro da bastoncini di legno. Opere di artigianato sopraffino, costruite da dei ragazzini africani. Cose da fare invidia ai più bravi scenografi teatrali europei. Chi non ha niente impara a usare le mani, e le mani fanno crescere il cervello. La scenetta inizia. Tutto è improvvisato, si recita su canovaccio, come nella Commedia dell’Arte. Ma qui è commedia di vita, ed è terribile al pensiero che quello che mettono in scena questi ragazzi è accaduto davvero. Ma vogliono farcelo vedere, l’hanno preparato per noi. Uno di loro interpreta il capo e ordina ai bambini soldato di marciare. Parla con la radio trasmittente, con tanto di antenna e rotella per il volume costruite con rami verdi. Uno dei bambini scappa, viene accolto da un civile che lo porta al centro della Caritas dove gli chiedono nome, cognome, famiglia per riportarlo a casa. La scenetta si conclude con un ballo di ringraziamento e di felicità. Questi balli ci hanno colpito, anche due giorni fa. C’è qualcosa di tribale, uno sfogo di energia che sfiora il parossismo, qualcosa di aggressivo e violento che ci ricorda la guerra. Capiamo perché i soldati sono soliti far ballare i bambini fino allo sfinimento, la sera, dopo le battaglie, per farli cadere nel sonno senza che abbiano il tempo di pensare a dove sono, a cosa hanno lasciato e a cosa di terribile hanno fatto. Iniziamo con i giochi teatrali, prima all’aperto, poi nella stanza comunitaria. A ogni gioco sembra che i bambini riacquistino un pezzo di infanzia negata. Notiamo che alla richiesta di andare in giro per la stanza in ordine sparso stentano e si incasellano in fila indiana. È il marciare militare a cui sono stati abituati. Ridono dei nostri maldestri tentativi di parlare in swahili, si divertono fino alle lacrime a imitare i vecchi, dimostrano un’agilità selvaggia a schivare i compagni, correndo senza toccarsi in una stanza minuscola. Mangiamo con loro. Le mama hanno preparato grandi piatti di fagioli neri con verdure, avocado e banane. Durante il pranzo i ragazzi sono silenziosi. Nessuno fiata. È rispetto per gli ospiti o specchio del loro stato d’animo? Lo noteremo nel pomeriggio, quando qualcuno di loro si rifiuterà di giocare, guardando silenzioso fuori dalla finestra. Chissà cosa penseranno. «In Italia ci sono bambini soldato?» ci chiede Tierrie, l’unico a parlare francese. Li salutiamo dandoci appuntamento a domani. Tornati nel villaggio, davanti alla grande chiesa di Rutschuru tre bambini con abiti a brandelli giocano col sercolo, una ruota fatta correre e stare in equilibrio da un bastone di canna di bambù. Si giocava così anche in Lessinia cinquant’anni fa.
Teatro nella foresta
Rutschuru, 11 aprile 2012. La sorpresa più bella arriva a fine giornata. Andiamo a trovare le suore polacche di Rutschuru. Arrivati al convento ci colpisce un grande edificio di mattoni rossi. È una chiesa? «No, è un teatro» ci risponde suor Grazyna. «Un centro culturale. Qui si fa danza, musica, teatro. Avremmo bisogno di qualcuno che guida i bambini e gli educatori. E magari di luci, microfoni, materiale elettrico...» Chi poteva immaginare che nel cuore della foresta ci fosse un teatro da 400 posti? con la corrente elettrica fornita dalle turbine costruite qui dai volontari italiani dell’associazione Mondo Giusto venti anni fa? Qualcosa ci dice che questo progetto sta trovando la sua strada. Già immaginiamo i bambini del Centro recitare di fronte alla gente del villaggio. Oggi siamo stati con loro tutto il giorno. Volevamo capire cosa significasse la scenetta che ci avevano presentato ieri. «Quella era un gioco. Ma la guerra non è un gioco» ci hanno risposto. Hanno parlato della loro esperienza di guerra. Ci teniamo indietro, abbiamo timore a chiedere, ma sembra che abbiano una grande voglia di parlarne. Per liberarsene? Per capire? Stavamo fotografando le armi-giocattolo che avevano preparato ieri quando abbiamo sentito un rumore: uno di loro stava facendo a pezzi uno dei fucili di canne di bambù. Si sono scatenati tutti e hanno distrutto fucili, ricetrasmittenti e granate, calpestandone i pezzi con i piedi nudi. C’erano poche parole da aggiungere, ma abbiamo voluto raccogliere qualche racconto. Lo psicologo e gli educatori ci hanno fatto parlare con Patrick, il più giovane, incaricato nell’esercito di fare lo schiavo del colonnello, con una paura tremenda di tornare a casa da un padre alcolizzato che lo picchiava e dove si mangiava a stento una volta al giorno. Poi Tierrie che alla domanda dello psicologo se anche lui avesse violentato delle ragazze ha risposto sì. Gli chiedo se sapeva quello che stava facendo. Mi risponde che era perennemente sotto effetto di droga e alcool. Poi la testimonianza più tremenda. La piccola Risiki parla seduta sul suo lettino. È l’unica ragazza del Centro e dorme in una stanza singola. Al termine del triste racconto aggiunge: «Quando ci ripenso vorrei suicidarmi». È difficile lasciare questi ragazzi e andare via, e siamo qui solo da due giorni. I saluti non finiscono mai. Incontriamo per ultimi gli occhi di Patrick, che cercano un fratello o un padre. Sulla strada del ritorno ci fermiamo ai piedi del Niragongo, 3.400 metri di vulcano fumante. Emmanuel, la guida alpina, ci dice che si può salire in due giorni, dormendo nelle capanne nella foresta. E se salissimo fin lassù con i bambini? Dormendo nella foresta, con loro che nella foresta hanno dormito e sofferto? Non ci stanno più emozioni oggi. La jeep corre veloce verso Goma. Domani partiremo per la regione del Masisi.
La Lessinia d'Africa
Masisi, 12 aprile 2012. Secondo le ultime stime, ogni giorno nella Repubblica Democratica del Congo si disbosca una superficie pari a 3.000 campi da calcio. La foresta congolese è la seconda del mondo, dopo l’Amazzonia. Saliamo verso il Masisi e al valico si apre un orizzonte ondulato di pascoli con pochi alberi solitari e piccoli boschi. Ecco il risultato di un disboscamento decennale, massiccio, intensivo, cieco. I pochi boschi spontanei cadono sotto le accette della popolazione locale. Grandi seghe a mano vengono mosse per realizzare assi di legno da portare e vendere a valle. Lunghe file di biciclette scendono la strada sterrata cariche di tre, quattro, perfino cinque enormi sacchi di carbone. La visione delle carbonaie ci porta indietro di cento anni, eppure qui si produce il carbon fossile ancora con i mucchi di terra fumanti vigilati giorno e notte dai carbonai. Siamo dentro a un film o è tutto vero? Ci fermiamo in una radura di carbonaie. La legna è accatastata a grandi ceppi a formare alte piramidi, pronta per essere coperta di terra per permetterne la combustione lenta. Decine di donne, uomini e bambini spuntano da dietro i sacchi di carbone coperti con paglia. I bambini neri sono ancora più neri per il carbone e i vestiti affumicati. Ci fanno segno di assaggiare il carbone di eucalipto: è buono, fa bene allo stomaco, soprattutto alle donne in cinta. “La montagna del carbon” era chiamata la nostra Lessinia, disboscata a partire dal Medioevo dai Cimbri, chiamati lassù per fare carbone per i padroni veneziani. Gli immensi pascoli del Masisi erano una foresta rigogliosissima, piena di animali selvatici, fino venti anni fa. E il disboscamento continua, sempre più nell’entroterra, tra l’indifferenza, o la compiacenza, dei padroni occidentali. Sinuoso e dolce Masisi, di prati immensi pascolati da vacche bruno-alpine. I corni non vengono tagliati, e le mandrie, scarsissime rispetto alla terra che hanno a disposizione, sembrano appartenere a un mondo antico. Arcaico e antico Masisi, terra di contadini dall’odore buono di letame mescolato a quello del fumo che esce dai tetti di paglia delle capanne di terra o di legno. È un tuffo al cuore: queste montagne sono come le nostre di un secolo fa. ACS Italia, l’organizzazione di cooperazione internazionale grazie alla quale siamo qui, porta avanti un progetto campione di riforestazione e ha costruito perfino un caseificio nel cuore della valle di Kitshanga. Un casaro piemontese è venuto a insegnare come produrre la toma, ma ai congolesi questo formaggio stagionati non piacciono, preferiscono il fresco e insipido guda. Così i casari, neri in un ambiente bianchissimo di maiolica, stanno reinventando la produzione, per riuscire a vendere i formaggi alla gente di qui. Mandrie di vacche pascolano lungo la strada per Kitshanga. Il parroco, l’Abbé Faustine ci accoglie nelle stanzette di legno che sembrano quelle di un maso alpino. Il verde dell’eterna primavera congolese si spegne nel tramonto trafficato di gente a piedi che raggiunge le capanne di paglia. Mangeranno intorno al fuoco e sarà subito notte.
Guerra
Kitshanga, 12 aprile 2012. Padre Faustine ci accompagna al campo profughi di Kitshanga. Da quattro anni vivono in questa distesa di tende e di baracche più di 9.000 persone fuggite dai loro villaggi a causa della guerriglia continua che non dà pace alla RDC, in particolare alla regione del Masisi. Le condizioni igieniche del campo sono spaventose: latrine indecenti e insufficienti, acqua soltanto dai pozzi, un solo presidio medico gestito dai Medici Senza Frontiere. Negli ultimi giorni ci sono stati due casi di colera: due bambini. Altri potrebbero essere ammalati, tra i centinaia che spuntano da ogni dove, ci si accalcano intorno, si allungano per vedere e toccare lo schermo della telecamera. Il campo ha un’organizzazione interna: un presidente, un segretario. Il cibo viene distribuito due volte la settimana dalle organizzazione che aderiscono al progetto umanitario PAM (Programma Alimentare Mondiale). Anche la Caritas contribuisce, ma il giudizio sulla gestione del campo è negativo: «Possibile che non si riescano a garantire condizioni minime di igiene? Le latrine sono orribili. Venire qui, portare cibo e andarsene non serve a nulla. Perché le grandi ONG internazionali non ci si occupano davvero di questi bambini?» L’Abbé Faustine cammina zoppicando. Dieci anni fa, durante la processione del Lunedì Santo, qualcuno lanciò una granata con l’obiettivo di uccidere l’allora Vescovo di Goma. Non ci riuscì, ma un sacerdote morì e a padre Faustine fu salvata la gamba dall’imputazione soltanto venendo in Italia. Parla italiano: «Questi profughi vorrebbero tornare a casa, ma non possono perché questa regione vive in uno stato di insicurezza continua». E lo proviamo sulla nostra pelle. Arrivati alla parrocchia di Kitshanga troviamo il vice-parroco di Mweso (15 chilometri da qui) insieme con le suore della parrocchia. Sono fuggiti. Tra di loro c’è suor Paola, emiliana, in RDC da dieci giorni dopo anni di missione in Cile e in Colombia. Racconta: «È dalle 14 di questo pomeriggio che sentiamo spari. Proprio vicino al campo profughi di Mweso (che è grande il doppio di quello di Kitshanga, n.d.r) è in corso un combattimento tra gruppi armati irregolari. Si stanno avvicinando al villaggio. Temiamo per gli ex bambini soldato ospiti del Centro di Transito e Orientamento. Sono restati con loro i quattro encadreurs (educatori) e mama Matilde. Se la situazione non migliorerà domani mattina si sarà costretti a evacuare il Centro». Il nostro viaggio torna a essere appeso al corso degli avvenimenti. Domani mattina dovremmo raggiungere il centro di Mweso, ma non sappiamo ancora cosa accadrà. Le notizie dicono che il presidente Kabila sta per inviare un grande numero di soldati nel Masisi per fermare i ribelli. Di soldati armati fino ai denti ne abbiamo visti in gran numero, in questi giorni. Armi, soldati e guerra. Tra la gente della valle di Kitshanga si diffonde di nuovo la paura. Qualcuno sta già lasciando i villaggi. La triste realtà dei campi profughi sembra essere destinata a durare ancora.
Ero un bambino
Mweso, 13 aprile 2012. I gruppi armati si sono ritirati nella foresta. Raggiungiamo il Centro di Transito e Orientamento di Mweso. Tre bambini soldato sono arrivati qui nell’ultima settimana. Ci chiediamo cosa sarebbe di loro senza questo progetto della Caritas Goma. Resteranno al Centro per tre mesi, al termine dei quali sarà rilasciato loro un certificato che attesta che sono usciti dalle forze armate firmato dal Generale capo dell’esercito della RDC. Un documento orribile, che sembra l’attestazione che questi bambini sono stati dei soldati. Ma senza questo documento non troverebbero lavoro, moglie, casa. È il lasciapassare per tornare a vivere. Mama Matilde porta il peso di questi ragazzi. Sono le donne a portare l’Africa. Ci mostra il tabellone in cui sono scritti gli ingressi, i reinserimenti in famiglia, le fughe dal Centro: «Dal 2004 a oggi abbiamo accolto qui 1.212 bambini. Quasi tutti sono stati reinseriti nelle loro famiglie e nei loro villaggi. Appena arrivano non parlano, tengono dentro quello che hanno vissuto. Col passare delle settimane si aprono e tirano fuori le loro storie». I bambini ci accolgono con occhi che ci interrogano. Fino a qualche settimana fa erano soldati nella foresta, ora sono qui e non hanno idea del futuro che li aspetta. Li catturiamo con i giochi di mimo. Uno di loro dice a mama Matilde: «Il musungu conosce tante storie». Ma il bianco tenta di capire le loro storie, e non ci riesce. Ci turba l’indifferenza con cui raccontano di uccisioni e violenze. L’addestramento militare traspare dal gioco: mettersi in fila, marciare, obbedire ai comandi è un attitudine comune. Quella che da noi sarebbe considerata una positiva disciplina, qui ci appare come il retaggio militare da distruggere. Chi restituirà a questi bambini l’infanzia che è stata loro tolta? Tornando verso Kitshanga ci fermiamo a vedere il taglio dei tronchi di albero. Uomini sudati, dal fisico poderoso, azionano la lunga sega, in equilibrio uno sopra, l’altro sotto il tronco. Chi lo va a spiegare a quegli italiani che pensano che gli africani non lavorano? I ceppi di alberi abbattuti sembrano arti mutilati. Le carbonare fumanti inghiottono il legno e la foresta scompare. Al bosco è stato rubata la possibilità di rigenerarsi. Era una foresta, erano dei bambini.
La grande carbonaia
Goma, 15 aprile 2012. Come ci aveva accolti, il Niragongo ci saluta fumante. Ci pare un’enorme carbonaia, come quelle che abbiamo visto nel Masisi. Partiamo con la testa e con il cuore pieni di immagini, di suoni e di suggestioni e con la consapevolezza di quanto ci sia da fare per questo angolo d’Africa. Lasciamo Goma dalla terra nera. Colate di lava hanno distrutto interi quartieri, perfino della cattedrale non è restato che un simulacro scheletrico. Il degrado di Goma ci fa tornare con il pensiero alla dignitosa povertà dei villaggi nell’entroterra. Alla barriera del confine con il Ruanda ci vengono fatte lasciare le inquinanti borse di plastica, sono state bandite, primo paese al mondo a farlo. E poi abbiamo ancora coraggio di chiamarlo Terzo Mondo. Salendo verso il Parco del Virunga incontriamo pullman di turisti di ritorno dall’escursione nella foresta per vedere i gorilla. Stride l’idea di venire a fare turismo qui, dopo quello che abbiamo visto. Ma grazie al turismo il Ruanda si è trasformato. La Repubblica Democratica del Congo paga invece il prezzo delle sue ricchezze e di chi ha tutto l’interesse di sfruttarle e di lucrare sulle spalle di un popolo paziente e consapevole. Il coltan e la cassiterite dei nostri telefoni e computer vengono da qui, ora lo sappiamo. Il Niragongo scompare dietro le montagne. Torneremo a rivederne il saluto di fumo in autunno.
Di nuovo la guerra?
Goma, 9 maggio 2012. Torniamo a raccontare, come il seguito di un diario che si era interrotto al nostro ritorno dalla Repubblica Democratica del Congo meno di un mese fa e che sentiamo l’urgenza di riprendere. Le notizie che, da allora, sono arrivate dal Nord Kivu non sono state confortanti. Difficile decifrarne le verità, tra le pieghe delle versioni ufficiali e i racconti che ci vengono dai missionari. Ecco l’aggiornamento di oggi. Un colonnello, tale Makenga Sultani, che viene nominato nuovo leader di un nuovo gruppo di soldati ammutinati, fuoriusciti dalle forze armate regolari chiamato M23 (Movimento 23 marzo). Il governo congolese che pare abbia deciso di consegnare alla giustizia un altro generale ben più conosciuto, Bosco Ntanganga, ricercato dalla Corte Penale Internazionale. Makenga che lo difende, e con 4.000 uomini (4.000 uomini!) occupa le colline tra Goma e Rutschuru. Passa da lì la strada che abbiamo percorso anche noi. Sono le colline che divide i bambini del Centro di Trattamento dei Traumi di Guerra di Rutschuru da Goma dove, in queste ore, sono in arrivo 15.000 profughi che stanno lasciando i villaggi di Rugari e Kibumba, dove sono insediati i soldati dei generali ribelli. Ancora più inquietanti sono i movimenti dell’esercito ruandese, schierato al confine con la Repubblica Democratica del Congo. «Rutschuru per il momento è tranquilla, e i ragazzi del Centro anche», sono le parole che aspettavamo di sentire. Ma nessuno può dire cosa accadrà. Ora l’evacuazione del Centro è una possibilità che la Caritas Goma mette in conto. Pronti alla partenza per Rutshuru, Nicola Rovetti e Valentina Puntel, dell’associazione Confini Vaganti, hanno concordato con ACS Italia e con la Caritas la sospensione della missione che, per tre mesi, doveva lavorare con i bambini su un programma di socio-motricità propedeutico al laboratorio di teatro previsto per settembre e ottobre. Tutto viene ora messo in discussione. Chi può dire cosa accadrà nei prossimi giorni? E come si evolverà la situazione da qui all’autunno? Il timore è il riaccendersi di una nuova guerra, nel consueto silenzio dell’Occidente addormentato, o tenuto impegnato a parlare d’altro. Pensiamo al giovane Patrick senza famiglia, a Tierrie inventore di giochi teatrali, alla piccola Risiki dagli occhi tristi, a tutti i ragazzi del Centro. Non sanno, loro, dei giochi politici, dei generali corrotti, della compiacenza dei potenti. Tra le colline di Rutshuru vivono forse ignari di questa guerra che si riaffaccia e che, comunque vada, li vedrà di nuovo vittime. Di loro torneremo a raccontare. Con loro, speriamo, torneremo a giocare.
Testo e fotografie di Alessandro Anderloni
Articolo di Vittorio Zambaldo sul quotidiano L'Arena del 13 aprile 2012. Scarica.
Articolo di Vittorio Zambaldo sul quotidiano L'Arena del 27 aprile 2012. Scarica.