L'attività social-culturale di Alessandro Anderloni a Velo
di Ezio Bonomi
È spesso sfuggente Alessandro, ma i giorni che precedono la ‘prima’ di una sua nuova pièce teatrale lo è più del solito; anche se cerca di mascherarlo o di non farlo pesare, appare particolarmente nervoso. Nell’ambiente che lo attornia c’è ormai attesa per ogni suo nuovo lavoro; si capisce che sono molti a chiedergli l’argomento del nuovo spettacolo, come procedono le prove, chi sono e se sono bravi gli attori. È sicuramente dibattuto tra il non poter svelare segreti e il non voler risultare scortese o sgarbato con persone amiche e sicuramente bene intenzionate ma è pure interessato a raccogliere qualche parere, curioso di sentire in anteprima eventuali reazioni o qualche opinione sia sul debutto che sul tema in oggetto.
Anche se a Velo i suoi interventi sono ultimamente diventati così sostanziosi da essere arrivati a disturbare ogni forma di potere, altrove più d’uno sarebbe disposto a giocare anche carte false pur di averlo come collaboratore o animatore culturale, perché da anni nessun altro centro della Lessinia riesce a catturare tanti turisti proponendo un’estate così ricca di manifestazioni, così varia nelle sue componenti, così stimolante e di qualità; e non ci riferiamo sicuramente alle "chiappe all’aria di Miss Lessinia", come le ha definite l’Odilla di Corbiolo. Nulla concedendo a contenuti pruriginosi o maliziosi o cretini (come talvolta succede anche qui), non presta il fianco nemmeno a coloro che, per scusare propri insuccessi, incolpano il cambiamento dei gusti o l’ignoranza del pubblico. Anche nel 2003, dal 27 giugno al 29 agosto, è riuscito a mettere in calendario a Velo 40 manifestazioni (in media due ogni tre giorni) di spettacoli teatrali, di videoproiezioni, di musica classica, jazz e folk, di rassegne e mostre, di escursioni…
L’ultimo spettacolo in cartellone può essere considerato un altro capitolo di una (per ora) “trilogia” che ha inteso dedicare alla storia locale della prima metà del secolo scorso. Il primo di questo tipo (rappresentato dieci anni fa, nell’estate 1993, e qui recensito nel Quaderno culturale n. 17, 1994, pp. 199-204), era intitolato La Madona l’à portà la luce, ma ormai da molti viene più brevemente indicato come “La Pellegrina”. Rivisitava il clima sociale sul finire dell’ultimo conflitto mondiale in un paese di montagna, tra attese di reduci, paure di vendette, speranze di pace, ricerche di lavoro, inizi di ricostruzione e problemi di emigrazione. Già in quel lavoro, come succederà anche in seguito, coinvolgeva più di una settantina di persone, tra attori, scenografi, cantori, costumisti… In paese aveva cominciato qualche anno prima, collaborando anche con la parrocchia, ad attorniarsi di un gruppo di cooperatori, mettendo in piedi nel 1990 il coro La Falìa e aggiungendovi nel 1994 quello de Le Piccole Falìe. Credo di non far torto a nessun collaboratore affermando che su una persona ha potuto contare in modo più sicuro e continuativo: l’onnipresente Giulia Corradi.
Negli anni successivi ha approfondito la conoscenza della tradizione fantastica locale, raccolta soprattutto da Attilio Benetti, confluita nello spettacolo Sera i oci, te conto ’na storia (1995) ricchissimo anche di sue musiche originali, trasformato in videocassetta nell’anno successivo. Risentiva delle tematiche gradite a don Alberto Benedetti lo spettacolo del 1998, I colori dell’arcovergine, perché proprio in quegli anni su quel caratteristico personaggio lessinico (che ha lasciato una profonda orma nell’animo di Alessandro) stava ricercando e studiando per redigere la tesi dei laurea, confluita poi nel volume Il prete dei castagnari (2001).
Nel frattempo però sceglieva anche di tornare alla primitiva ispirazione, quella per la storia locale del secolo appena scorso e l’incandescente dibattito politico del 2000 ha sicuramente offerto più di qualche spunto per il lavoro La cattolica e l’ardito, sulle commistioni tra Chiesa Cattolica e Fascismo, tra fede e politica ma anche tra opinione pubblica e propaganda o demagogia. Sua è stata sicuramente l’idea centrale e il canovaccio, ma sia la maggior parte del testo dello spettacolo prendeva forma insieme agli attori sulla scena nel corso delle prove, sia gran parte del contenuto era fornito dalle testimonianze degli abitanti del posto che egli andava intervistando. Quelle persone per cui il periodo fascista aveva coinciso con la giovinezza, che per circostanza, opportunità, necessità, propaganda o altro vi avevano creduto, non avevano potuto allontanare dalla memoria quel periodo sicuramente significativo della loro vita, nel bene e nel male. E allora dai cassetti più obsoleti dei vecchi comò tornavano fuori gagliardetti, fasce, copricapo, foulard, camicie nere… tenuti fin lì in naftalina. Tornavano alla luce foto di sfilate, di gare e di manifestazioni, testi di proclami o discorsi, pagelle scolastiche, tessere per il vitto, emblemi, medaglie… Tornavano alla memoria formule, motti, proclami, spartiti musicali e canzoni che venivano riproposti senza paura di compromettersi o di sfigurare, perché le persone erano sicure che Anderloni avrebbe adoperato quel materiale non a loro dileggio o danno, ma per effettuare un’esatta ricostruzione storica, sociale e ambientale del periodo.
I rancori erano ormai assopiti, fascisti ed antifascisti erano scomparsi, per questo tornava lecito se non doveroso rivisitare quel periodo così significativo della nostra esperienza passata, perlomeno per non ricaderci, se negativa. Sarebbe sicuramente iniquo e demenziale attribuire a questa gente nostalgie per il fascismo. Raramente ho sentito mia madre cantare, ma durante questa recita non smetteva un attimo: lo faceva sottovoce e le si arrossavano gli occhi; conosceva tutte le canzoni sia politiche che religiose del tempo, anche se per la maggior parte obsolete da oltre cinquant’anni. Che quei motivi avessero poi un potente impatto emozionale sulla gente emerge pure dal fatto che per circa un anno i ragazzi anche a scuola intonavano "Giovinezza” e “Per Benito”. Gli insegnanti se ne meravigliavano non poco, perché non ne capivano il motivo. Come quelle suore che, scendendo da un pulmino, sono rimaste allibite nel vedere il paese di Velo ancora con le scritte inneggianti al duce e all’impero e con la piazza con la ghiaia com’era negli anni quaranta, perché per la trasposizione dello spettacolo in film si era proceduto con fatica immane, ma sicuramente ripagata, a trasformare così il centro (2002).
Da qualche anno rimuginava pure il progetto di approfondire la conoscenza di cosa fosse veramente successo in Lessinia nei 20 mesi che vanno dal settembre 1943 all’aprile 1945, quando lo Stato istituzionale scomparve o fu sicuramente latitante e lasciò i cittadini in balìa di quel caos che egli stesso aveva creato. Capire a fondo questo vuol dire anche contribuire a chiarire cosa avesse rappresentato e cosa avesse comportato la Resistenza da noi. Perché è questo un movimento di cui tutti apparentemente vorrebbero attribuirsi i meriti o fregiarsi della paternità, ma che per vari aspetti locali forse a nessuno interessa o calza veramente a pennello. Ricordo come fosse ieri la saggia affermazione che a questo proposito mi disse Domenico Anselmi, meglio conosciuto come “el Minci” da San Bortolo: «Qua i partejani no' i ga fato el so dover. In te le altre parte no’ so».
Anderloni sembra voler coniare un termine nuovo o ridare vivacità a uno sicuramente poco usato: chiama “esulanti” quelle persone di ogni età, sesso o nazione che durante il periodo bellico si trovavano “fuori posto”, quasi mai per scelta ma quasi sempre per necessità o fatalità. La guerra, sembra voler dire, anche nelle situazioni meno drammatiche è altamente inumana, perché fa sentire fuori posto tutte le persone. E chi sono questi esulanti? Sono i soldati dei vari eserciti, ridotti a questo contro la propria volontà, sradicati dal proprio ambiente e dalla propria terra, costretti a chiedere ospitalità, rifugio o protezione a quella medesima gente che essi stessi hanno contribuito a bistrattare; sono gli sfollati che per non soccombere ai bombardamenti più probabili nei grossi centri cercano rifugio in paesi periferici; sono gli imboscati che per non rispondere al richiamo di uno Stato fantoccio devono vivere come banditi essendo innocenti o da fuggiaschi nel proprio ambiente; sono i disertori che non capendo o non sopportando o non condividendo la guerra, appena hanno intravisto la possibilità sono balzati dall’altra sponda e, contando sul buon cuore o sul buon senso della gente ma a rischio della propria vita, aspettano la fine di quell’incubo; sono i cosiddetti partigiani, qui ironicamente chiamati spartejani, che nel caos istituzionale pensano di risolvere il problema a modo proprio, ma creando spesso alla popolazione più fastidi o problemi che vantaggi… E fuori luogo si sente anche la popolazione locale, dibattuta nel dubbio se comportarsi secondo generosità o buon senso, venendo incontro alle necessità ma rischiando di persona, o se stare alle direttive di regime, correndo meno rischi ma contraddicendo la propria coscienza.
Come per gli altri spettacoli, l’elaborazione del testo non è avvenuta a tavolino ed è frutto di varie componenti: Anderloni ha letto quanto è stato possibile reperire relativamente ai fatti successi in vari centri della Lessinia nel periodo indagato, ha intervistato quanti è ancora possibile trovare come testimoni diretti o indiretti degli episodi più significativi, di ogni ideologia o di ogni fazione ha sentito i sostenitori e i denigratori, di ogni episodio ha raccolto le varie versioni, i pro e i contro. Scelti i fatti secondo lui più significativi e degni di rappresentazione, ne ha individuato gli attori tra la gente, li ha coinvolti (e sono 37!), qualche volta facendosi dire di si anche in modo rocambolesco. Non ha affidato loro un testo prestabilito, se non altro perché ancora non c’era: li ha buttati sulla scena senza copione, ha manifestato ad ognuno quali fossero i suoi progetti e le sue intenzioni e ha creato loro addosso la parte adatta, con la collaborazione anche degli interessati. In questo modo nessun attore ha un ruolo inadatto, perché come un vestito gli è stato cucito addosso su misura, la parte nasce in accordo tra regista e attore. Se un attore ad un certo punto si stanca o dimostra scarso interesse, piuttosto che farlo recitare svogliatamente o contro voglia, lo lascia tranquillamente perdere e lo sostituisce. L’entusiasmo e il “crederci” sono per lui fondamentali e irrinunciabili.
Voglio a questo punto motivare e spiegare cosa intendo con le parole “attività social-culturale” che sono comparse nel titolo a questo articolo. I ragazzi che vivono la fortunata avventura di recitare in questo gruppo, per molteplici aspetti e motivi ne rimangono positivamente condizionati o mutati e ne ho verificato di persona parecchi casi. L’impegno delle prove e delle recite offre loro per un certo periodo una validissima alternativa ai bar o alle discoteche, vissuti esclusivamente come ‘porti di rifugio’, in cerca di alibi o di diversivi al vuoto, all’insicurezza e alla solitudine. Gli applausi del pubblico e il conseguente pur limitato ‘successo’ infondono in parrecchi maggior coraggio e autostima e li aiutano a vincere timidezza e ritrosia, che talvolta in montagna sembrano quasi congenite. Il portare sulla scena a Velo, in città, in provincia e fuori provincia (sono già stati a Brescia e a Vicenza) testimonianze di vita, di storia e di letteratura della loro Lessinia oltre ad aumentarne le conoscenze, li fa diventare giustamente orgogliosi dei valori della propria terra, consapevoli di essere eredi di una cultura ricca e avvincente.
Faccio scuola qui da oltre vent’anni, per cui i più giovani li conosco quasi tutti e resto meravigliato anche da come Alessandro dimostri la propria abilità nel far emergere da ognuno le caratteristiche più intime, di cavare da ciascuno doti impreviste, di far rendere anche coloro da cui non me lo sarei aspettato. Un’altra cosa mi meraviglia: questi giovani sembrano “naturalmente” bravi e convincenti. Benetti, che mi siede accanto, mi dice che è una questione ereditaria: emerge la bravura rimasta nel DNA degli avi che hanno recitato per generazioni nei gruppi teatrali paesani o parrocchiali. Io penso pure che questi giovani (alcuni dei quali sembrano volutamente recitare a gesti esagerati, esagitati, caricati) rendono perfettamente l’atteggiamento del partigiano, del soldato, del fuggiasco, perché tali forse dovevano essere o risultare le condizioni di fanatismo, terrore, agitazione ed esaltazione che in quei momenti vivevano quasi tutti. Interessanti e simpatici risultano tutti i tentativi di allargare lo spazio scenico al di fuori del palco, quasi a volerlo calare tra la gente: già in apertura le donne che lavano i panni alla fontana fingono di immergerli nell’arbio tra palco e pubblico; nelle pause richieste dai cambiamenti di scena, delle figure silenti in controluce ai lati del sipario si scambiano dialoghi segreti, informazioni o spiate; altre volte gli attori entrano o escono di scena dal pubblico, attraverso le scalette di accesso al palco. E quando vuol proprio rappresentare l’esterno o il ‘dopo’ non disdegna la tecnologia, cioè la proiezione a tutta scena di immagini preregistrate.
L’intento abbastanza palese dello spettacolo è di raccontare, far capire o tentar di spiegare quanto di eroico e di vigliacco, di generoso e di opportunistico, di esemplare e di iniquo sia successo in quel periodo così confuso, di cui tutti sembrano interessati ma che nessuno integralmente giustifica o gradisce. È un testo che offre meno situazioni giocose dei precedenti, anche se emerge qualche momento ilare, perché anche nelle difficoltà la gente non si lasciava andare alla disperazione assoluta. Non essendoci una trama precisa, si assiste a vari quadri senza il patema di sapere come andrà a finire, perché tanto già tutti lo sanno. La finale, alla Chaplin di Tempi Moderni, con la gente costretta ad andarsene profuga, perché la guerra ha impoverito anche la Lessinia, fa riflettere su come la pace generi armonia e benessere, mentre la discordia e la guerra non possono provocare che miseria e abbandono, anche dei luoghi amati.
Come conclusione mi sia concessa una boutade. I testi di queste opere sono il risultato di attente indagini sul territorio e studi storici condotti scientificamente; i quadri riprodotti descrivono il tenore di vita e l’ambiente sociale della Lessinia del secolo scorso; i dialoghi hanno sicuramente la caratteristica di documentare il linguaggio spontaneo, vivo e genuino della gente di montagna: qualche Ente o Associazione culturale del posto non potrebbe finanziarne una stampa, pure in edizione economica, che potrebbe essere posta in vendita ad ogni rappresentazione? Avrebbero un valore documentale storico, etnografico, sociale e linguistico.
La Lessinia - Ieri Oggi Domani, Quaderno Culturale n. 27, 2004